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KILOWATT 2020: UN’EDIZIONE DA RICORDARE

Il Kilowatt Festival compie 18 anni e regala un’edizione memorabile

di Sandro Avanzo

Grandi emozioni dietro grandi metafore all’inaugurazione del Festival Kilowatt 2020 che arriva all’anno 18 della maturità proprio tra le infinite difficoltà della pandemia, la maturità del resto è stata raggiunta da parecchio tempo e riconosciuta da importanti premi come l’Ubu del 2010.

La cerimonia di inizio festival si svolge nel cuore storico-artistico di Sansepolcro: la Scala del Palazzo del Pretorio come pulpito per gli organizzatori e le autorità cittadine. Dal portone spalancato si intravede la Resurrezione di Piero della Francesca, simbolo rinascimentale della città, di una regione e di un’intera epoca di rinnovamento, ma oggi divenuto emblema di volontà di rinascita da un silenzio imposto per mesi alla creatività artistica e alla fruizione collettiva dello spettacolo live. Tanto il desiderio dei teatranti di esprimersi, altrettanta la voglia del pubblico di tornare al teatro. Tutto è palpabile, tutto è pervaso dalla luce del dipinto di Piero.

In queste settimane di inizio estate sono partiti anche altri festival, alcuni più ricchi o altri più paludati, ma nessuno può fregiarsi di elementi simbolici altrettanto potenti e illuminanti. Se poi si aggiunge l’incantamento creato dalle letture ipnotiche della voce Roberto Latini (a lui l’edizione di quest’anno del festival ha dedicato uno speciale focus), si può capire come il momento dell’inaugurazione di Kilowatt 2020 rimarrà a lungo nella memoria e nei sentimenti di chi di quei magici momenti è stato testimone.

È stato merito della tenacia e dell’ottimismo degli organizzatori Lucia Franchi e Luca Ricci se il programma finale si è offerto alla lettura ricco di titoli e proposte tra teatro di ricerca, spettacoli di danza e mostre performative (oltre 39 i titoli!) quanto mai vari e interessanti collocati tanto in spazi tradizionali che in piazze e cortili all’aperto a riempire l’intera città.

Difficile dunque riconoscere un minimo comun denominatore identitario in tanta eterogeneità, a parte l’ovvia qualità dei progetti, una qualità giudicata spesso a partire da idee indicate sulla carta e infine sperimentate solo al debutto davanti al pubblico anche a costo di qualche delusione.

Se proprio si deve individuare un fil rouge che lega gli spettacoli almeno dei primi giorni del festival (quando ci si è fermati nella cittadina dell’Alta Val Tiberina) si può forse usare la parola “riscrittura”, perché indubbiamente una riscrittura è Amleto + Die Fortinbrasmaschine di Roberto Latini (anzi una “riscrittura di una riscrittura” del classico shakespeariano rielaborato dall’attore/autore/regista a partire dal rifacimento di Heiner Müller). Lo spettacolo è oramai datato di un lustro, ma riproposto in questo contesto vale da sigillo identitario non solo di un’intera poetica, ma da “nord” in un’ideale percorso che qui trova una tappa importante tanto di sviluppo che di riconoscimento.

Del resto anche Soffiavento di Paolo Mazzarelli, autore e interprete, parte da una riscrittura del bardo inglese, il celebre Macbeth, che in un gioco di scatole cinesi diventa il pretesto per raccontare e mettere alla berlina la carriera e la fama di un altro attore, autentico e in attività, facilmente identificabile in Pippo Delbono. Siamo alla prima presentazione in pubblico di un monologo che verrà sviluppato nei mesi a venire e vedrà il debutto in forma compiuta solo nella prossima stagione, ma si può già dire che si compone esattamente di due anime attualmente ancora non del tutto amalgamate, quella shakespeariana del maledetto re scozzese e la satira, che diventa talora invettiva feroce, tenzone teatrale tra due titani tra i più interessanti attori della nostra scena nazionale. Sarà interessante tra finzione e realtà, tra biografia vera e autobiografia fittizia, vedere se davvero e in che modo il Macbeth/Delbono dopo aver conquistato il pubblico d’oltralpe finirà per cadere su quel palco sotto la spada del suo più giovane collega (non nato da donna?).

Di certo non corre rischi di tal genere Simone Perinelli che con le sue sole forze da autore, regista e unico interprete si fa carico di portare in scena l’intera tragedia euripidea in Baccanti- Βάκχαι alla maniera del suo maestro Roberto Latini (non si sa se il mentore abbia visto l’allievo e cosa gli abbia detto). L’operazione di riscrittura ripete i moduli che Perinelli aveva già sperimentato anche nel suo recente Yorick (da Shakespeare), con lunghi monologhi attribuiti a diversi personaggi del testo, sì da sviluppare l’intera narrazione attraverso differenti prospettive di interpretazione; ma mentre nel precedente spettacolo la fusione tra i vari ruoli e il dramma diventava un’esaltazione dell’evento scenico, nella presente circostanza euripidea la sperimentazione mostra una corda molto corta ed esaurisce in fretta l’interesse per l’accadimento scenico, tanto è vero che non stupisce affatto la fatica di Perinelli ad andare a chiudere in modo univoco una trama di cui ben si conosce il finale. E ben poco può il suo pur evidente talento attorico anche contro dubbie scelte scenografiche (come la gigantesca maschera micenea che cala dall’alto o i filari di lucette felliniane) in totale contrasto con il minimalismo simbolico che caratterizza lo spettacolo.

Euripide è di nuovo in sottotraccia anche nella riscrittura dell’Eracle che Fabrizio Sinisi affida alle parole recitate da Christian di Domenico attore solista. Nell’attualizzazione contemporanea del mito classico, un po’ commedia all’italiana anni ’60 e un po’ denuncia sociale alla Celestini, l’eroe diventa un bravissimo ragazzo da 100 e lode alla laurea e con un’ottima carriera professionale grazie alla quale riesce a costruire una famiglia pressoché perfetta con tanto di moglie e figlioletta, fino a quando una calunnia sul posto di lavoro non mette in atto un’inarrestabile valanga di eventi negativi. Dai 3.500 e più euro mensili a homeless in una parabola discendente che lo allontana da moglie e figlia (ma ci sono gli assegni di mantenimento!) nell’identico percorso già raccontato da Valerio Mastandrea nel film Gli equilibristi. Fino all’inaspettato e originale finale, il momento in cui il testo parte davvero alto con un autentico colpo d’ala che però è inopportuno qui rivelare. Ci aspettiamo che il lavoro possa crescere ancora nei mesi prossimi, perché le premesse drammaturgiche positive ci sono tutte a partire dall’ottimo tormentone ossessivo usato col calcolo delle entrate/uscite mensili, settimanali e quotidiane; e anche l’interpretazione di Christian di Domenico tra il cabaret, l’improvvisazione e il monologo impegnato è pienamente convincente.

Per certi versi anche Un Chant d’Amour del Teatro Rebis, presentato a Kilowatt come anteprima, può esser considerato una riscrittura, se per scrittura primaria prendiamo i fatti della cronaca, così come sono riportati dai media e dai social. Andrea Fazzini ha adottato il metodo ideato da Genet per I Negri con i criminali che recitano sé stessi in quanto criminali per non deludere chi li vuole vedere come tali e l’ha accoppiato agli interventi di un(a) capocomica/imbonitore a raccontare gli eventi. Così, davanti a una vera baracca di burattini, ha ricostruito per la scena i tragici fatti di matrice razzista accaduti a Macerata nel 2018 a seguito dell’omicidio di Pamela Mastropietro. Con evidenti radici nel teatro di figura per ragazzi, e forse proprio grazie a tali radici, si è rimasti fuori da ogni retorica e da facili impostazioni ideologiche e in più si sono aggiunti stimolanti spunti di riflessione.

Le vere sorprese di inizio Kilowatt 2020 sono però arrivate dagli spettacoli di danza, a partire dall’autentica scoperta del gruppo Frantics Dance Company, quattro performer di differenti provenienze internazionali con base a Berlino e Friburgo. Nel loro spettacolo Last Space, street dance assoluta ed esplosiva, si sono beatamente svincolati dagli attuali dettami della distanziazione sociale e sulla piazza principale per un’intera ora si sono cercati, accoppiati, lasciati, scontrati a due a due, tre contro uno, in assoli come in pas de deux, in un incredibile serie di movenze e atti fusione di Bboying, Hip-hop, tecniche di improvvisazione, Acrobatica e Danza Contemporanea. Dentro la musica e fuori dalla musica, tra balzi improvvisi e repentini cambiamenti di direzione hanno sviluppato un gioco serio e consapevolmente omoerotico che rimandava costantemente all’infanzia della campana, dei quattro cantoni o del ruba-bandiera ma che nel contempo di quell’infanzia restituiva intatti paure, gioie, malinconie, dolori e sorprese. Uno spettacolo popolare e insieme colto, pura energia in deflagrazione! Dunque una compagnia da tenere d’occhio e da (in)seguire nei prossimi tempi.

Zero distanziazione sociale e ancora tanto omoerotismo (Kilowatt come alternativa al mancato Pride nazionale 2020?) anche nel lungo pas de deux Manbuhsa della compagnia italo-svizzera Ivona. Una coppia di figure maschili seminude e immobili, di forme differenti ma complementari, quasi silhouette disegnate in controluce da Erté, si muovono dapprima lentamente, con mosse da butoh, poi si mettono in moto per corteggiarsi sempre più vorticosamente, quasi all’esasperazione, a inseguirsi con violenza, a sedursi, completarsi. Un buffo pagliaccetto di stracci ai fianchi li rende forse parodie di cigni ciaikovskiani o ridicole gru da ukiyo-e giapponese o struzzi eleganti alla Aldo-Giovanni-e-Giacomo, comunque creature tra l’umano e l’animale il cui buffo aspetto toglie loro ogni possibile autentico sex-appeal per lo spettatore, ma conferma un evidente richiamo erotico reciproco. Danza di corteggiamento, ma anche ricerca di una propria identità sessuale, l’inseguimento di una pulsione di cui godere e che si esprime in movimenti specularmente stimolanti e scambievoli. Le loro movenze vengono esaltate da un magnifico disegno di luci che diventa il protagonista terzo dello spettacolo. Paolo Girolami e Giacomo Todeschi sono davvero portentosi, precisi al millimetro, a giocare con i propri corpi nella difficile partita che li vede senza una sola incertezza sempre sulla sottilissima lama che unisce e separa seduzione e grottesco.

Del tutto convincente anche la giovanissima coreografa, poco più che ventenne, Lucrezia C. Gabrieli che nel suo pas de deux Stetching One’s Arms Again in coppia con Sofia Magnani dimostra di non temere il pericolo di un confronto con le autorevoli pagine di Mozart e neppure con l’accostamento dei colori di Mark Rothko e che, così giovane, può permettersi di ricorrere a esperienze artistiche tanto alte e differenti sia per esprimere le proprie energie che per farlo divertendosi.

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